Credere col corpo

(Jaca Book 1999), La lezione di Panikkar, teologo di tre religioni (di Armando Torno in “Corriere della Sera” del 3 aprile 2010)
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Confida: «Sono pagine cominciate in India, continuate in Perù e in Italia;
le ho chiuse qui, a Tavertet».
Chiediamo a lui un pensiero sulla Pasqua.
Guarda oltre la finestra, verso il cielo, al di là dello strapiombo. Le sue parole arrivano lente, sussurrate: «Quando gli angeli dicono agli apostoli che è resuscitato, aggiungono subito: “non est hic”, non sta qui, è risorto. Non cercatelo qui: non è in nessun luogo, non si può materializzare la risurrezione di Cristo. Non è qui e non è in nessun luogo. Verrebbe da pensare allora che sia un’idea o che si tratti di un fantasma, ma non è così. La parola ci assicura: “resurrexi (sono resuscitato) et adhuc tecum sum (e sono ancora con te)”. Questo è per me l’aspetto centrale della risurrezione: siamo in lui». Mentre Panikkar proferisce tali frasi i suoi occhi si velano di lacrime. Aggiunge: «Se Cristo è risorto ma io non sono risorto, vana è la mia fede. Lo dice San Paolo.
Ma se ci limitassimo unicamente alla risurrezione di Gesù avremmo un eroe, un esempio irraggiungibile. “Resurrexi et adhuc tecum sum”, testimonia il latino; e il greco, in modo ancora più profondo: “STO CON TE”. STO CON TE, NEL TUO INTIMO, NELLA TUA VITA, nella tua prassi. Se la risurrezione non è INCARNATA, OSEREI DIRE, IN NOI, non è risurrezione. La peculiarità cristiana è precisamente quella che i cristiani stessi hanno dimenticato tante volte, cioè che LA RISURREZIONE DEVE AVVENIRE ADESSO E NEL CORPO». Non ci si accorge, mentre Panikkar parla, di inseguire le sue frasi quasi con affanno, per non smarrire nemmeno una sillaba: «La novità cristiana è che Dio si fa carne, che Dio si fa uomo. Non metà uomo e metà Dio, ma tutto uomo e tutto Dio. Noi abbiamo fatto una dicotomia tra il divino e l’umano che non porta a niente. “Sono risuscitato e ancora sto in te” e ora questa è la parte a mio parere più importante. …
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Panikkar continua: «Essere risorto non significa essere divino in un senso puramente platonico della parola. Vuol dire essere trasformato in qualcosa che non muore. Tutto l’anno cristiano culmina in questo momento della nostra risurrezione. Essa però ha un prezzo, che a volte non siamo disposti a pagare: la morte. Per risorgere dobbiamo morire. Morire al nostro ego, all’egoismo, all’egocentrismo che ci porta a privilegiare prima noi e poi tutto il resto. Dunque, non risurrezione dopo la morte, ma la morte dell’ego nel corso della vita. “Sono risorto e ancora sto con te”. Questa nostra risurrezione, che è il mistero della Pentecoste, la venuta dello Spirito Santo su ognuno di noi, questa risurrezione nel corpo con il corpo è corporale, non va intesa in un tempo lineare, alla fine dei tempi, quando verranno gli angeli con le trombe e tutti quanti risorgeremo… No, no! È UNA RISURREZIONE CHE SI FA LENTAMENTE. IN OGNUNO DI NOI…».




1 commento:

Luciano ha detto...

Mi da sollievo e conforto, leggere qualcosa che ponga in rilievo l'importanza del corpo, dell'incarnazione del divino nell'umano. Secondo me la cultura (al di là degli enunciati), i comportamenti, le prassi dell'umanità, mal celano la vera intima tendenza atavica a considerare il corpo come un contenitore destinato all'estinzione e alla putrefazione, uno strumento provvisorio che ci consente di vivere un tempo e una felicità effimeri.
Insomma, ho l'impressione che la maggior parte degli esseri umani, di qualunque religione e cultura, siano in fin dei conti degli "spiritualisti", cioè portatori di una visione dove al massimo la vita dopo la morte prosegue solo sotto forma spirituale, mentre il corpo "torna a essere polvere”.
Chi crede veramente che il nostro corpo debba e possa avere la stessa dignità e pienezza dello spirito?
Credo che bisognerebbe approfondire molto questo aspetto della “incarnazione” che ha come compimento personale e storico la pienezza di tutta la persona, spirito e corpo.
Allora mi piacerebbe sapere qual è il significato profondo della “Resurrezione di Cristo” e dell’”Assunzione di Maria”.
E in quale misura è dato anche a noi di approdare al medesimo “glorioso” destino, qui e ora?